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Domande e risposte sul tema del disarmo

(tratto da “Pacifismo e non violenza” de “La Comunità per lo sviluppo umano”)

Perché oggi si insiste sul fatto che lavorare per il conseguimento della pace sia di fondamentale importanza?

Perché si parte da questa alternativa che non ammette mezzi termini: pace crescente o distruzione crescente.

Tuttavia, le guerre oggi in corso sono in numero molto limitato.

In questo momento sono in corso almeno 28 conflitti, che sono costati la vita a più di cinque milioni e mezzo di persone (*). Se si aggiungono le guerre che si sono concluse negli ultimi cinque anni (Sierra Leone, Liberia, Sud Sudan, Congo Brazzaville, Eritrea-Etiopia, Casamance) il bilancio delle vittime sale a sette milioni e settecentomila morti.

(*) Oggi si spara, e si muore, in Palestina, Iraq, Afghanistan, Kurdistan, Cecenia, Georgia, Algeria, Ciad, Darfur, Costa d’Avorio, Nigeria, Somalia, Uganda, Burundi, Congo (R.D.), Angola, Pakistan, Kashmir, India, Sri Lanka, Nepal, Birmania, Indonesia, Filippine, Colombia, Libano. E non solo. (fonte: peacereporter, 30/08/2006)

In ogni modo, ci sono state guerre limitate, non una distruzione generale.

Se si considera questo numero di morti, vi aggiungiamo i feriti e gli invalidi e li moltiplichiamo per il numero di genitori, figli, vedovi e parenti sopravvissuti, si avrà un numero di persone, direttamente coinvolte dall’azione della violenza fisica, che supera il numero degli abitanti di vari paesi riuniti insieme.

Non sarà necessario parlare di campi, paesi e città rase al suolo; di esodi in massa e di popolazioni profughe; di fame, malattie e disperazione come conseguenza diretta della violenza fisica, per comprendere che solo a molti chilometri di distanza dai punti in conflitto si può vivere una situazione di pace. Una pace che comunque è diventata abbastanza relativa, perché anche nei paesi lontani dai conflitti si vive nel terrore di possibili attentati.

Nonostante tutto, non è ancora scoppiata la terza guerra mondiale.

Cosi è. Ma la politica dei paesi più forti sta andando verso un continuo riarmo, e non verso la diminuzione degli armamenti. Perché non cercare un equilibrio nella direzione del disarmo invece che in quella del riarmo? Perché il mercato delle armi è un grande business, ed è necessario e funzionale all’appropriazione di tutte le risorse naturali del pianeta da parte di chi è economicamente più forte. La corsa agli armamenti è fondamentalmente guerra economica in cui una parte cerca di sottrarre risorse produttive all’altra. Ogni materiale bellico di scarto o superato deve essere piazzato in altri luoghi per riassorbire nel miglior modo possibile le spese sostenute a suo tempo. I potenti, ed in particolar modo gli Stati Uniti, aumentano il loro potenziale di armi, sviluppano conflitti alla loro periferia e generano dipendenza economica attorno a loro. Poiché, d’altra parte, i cosiddetti “punti di interesse vitale” cominciano ad essere tutti i punti del mondo, ognuno cerca di custodirli direttamente o indirettamente, con le armi. Oggi si tratta dei propri confini, poi dell’accesso alle vie di comunicazione, poi dei mari caldi, più tardi delle fonti petrolifere e di materie prime e cosi via... fino ad arrivare allo spazio interplanetario.

Il caso più recente ed emblematico è quello della guerra in Iraq, una guerra “umanitaria” iniziata con motivazioni poi risultate inesistenti (la ricerca e messa fuori uso delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein), che in realtà è stata la guerra per il controllo del petrolio da parte degli Stati Uniti.

In tutta questa situazione c’è in più il pericolo di un vero e proprio “terrorismo nucleare”, visto che in questo momento è abbastanza facile ottenere e trasportare armi atomiche. Molti paesi infatti posseggono la tecnologia e la capacità per poter produrre le armi atomiche, e questo complica maggiormente la situazione.

Anche supponendo che le cose stiano così, nessun paese vorrebbe lanciare per primo una bomba atomica.

Purtroppo questo non è detto, perché già una volta (nella seconda guerra mondiale) è stato fatto, e non per ragioni di difesa. E’ vero che nessuno desidera una guerra totale, nella quale tutto sarebbe distrutto, ma si ritiene possibile la guerra nucleare limitata. Tuttavia, dato che il monopolio atomico è finito, nessuno può ritenersi al sicuro da eventuali incidenti provocati da altri; e neppure dal ricatto esercitato da un piccolo gruppo. E’ vero, non è dimostrata la fatalità dell’ecatombe nucleare ma poiché questa possibilità non è poi cosi remota, tutte le persone ragionevoli dovrebbero agire a favore delle possibilità di pace. Inoltre, se le cose dovessero continuare così, nessuno potrebbe ritenersi immune dal rischio di restare intrappolato in una zona di conflitto nucleare limitato, o in uno scontro convenzionale conseguente allo sviluppo militare propiziato da qualche paese.

Se consideriamo l’aumento degli armamenti in questi termini, non si vede in che modo un gruppo di persone o una corrente di opinione potrebbero fermarlo.

Non si tratta di volontarismi personali o di gruppo. Si tratta delle crisi sociali che accompagnano lo sviluppo bellico. I debiti potrebbero non essere pagati e il sistema finanziario subire un collasso; alcune risorse essenziali estinguersi; le alleanze militari rompersi. L’asfissia economica delle popolazioni può far mutare il segno del sistema politico sotto il quale vivono. La violenza quotidiana raggiungerebbe allora un livello di contaminazione tale che la sicurezza personale diminuirebbe in qualunque città e alla luce del giorno. Terrorismo, delinquenza comune, aggressione e sopraffazione a tutti i livelli, possono portare le popolazioni all’esplosione sociale. In una crisi generalizzata i meccanismi di controllo si spezzano ed i popoli si orientano in una direzione opposta ai fattori che hanno procurato loro sofferenza. I popoli amano la pace, ma se i loro governanti, illegittimamente, li trascinano al conflitto, i popoli li ripudiano, anche violentemente. Non si tratta di volontarismi. La crisi generale è legata indissolubilmente allo sviluppo bellico, e di conseguenza, cominciano a crearsi condizioni di rifiuto attivo verso il sistema sociale nella sua globalità. II punto è questo: è necessario prendere coscienza - e farla prendere agli altri- della necessità e dell’urgenza di produrre un cambiamento sociale e di ripudiare la violenza in ogni sua forma.

Se anche le grandi potenze comprendessero il problema con questo punto di vista ed iniziassero una politica di disarmo, resterebbe sempre il problema del terrorismo.

Il terrorismo si è sviluppato all’interno di una situazione politica e sociale caratterizzata da grandi tensioni e violenze, e forti conflitti tra paesi e culture. In un clima di distensione tra paesi, con una reale intenzione di voler risolvere i conflitti nell’interesse di tutta la popolazione, con l’appoggio ed il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite, cesserebbero le ragioni per l’esistenza stessa del terrorismo, o, nei casi peggiori, si troverebbero occasioni di cooperazione per risolvere le situazioni. Ma la direzione dovrebbe essere quella della distensione, della collaborazione, della non violenza.

La violenza è propria di tutte le specie animali e fa parte della natura umana, non di un sistema di vita in particolare.

Non è il caso ora di discutere sulla ipotetica natura umana. Questa idea - comunque - si oppone al progresso umano. Ciò che è vero è che la pace, in questo momento critico e nel futuro immediato, è possibile se i popoli si rendono conto che la violenza fa parte della metodologia di questo stesso sistema sociale. Di conseguenza, la crisi potrà essere superata opponendole la metodologia della non violenza.

Se il mondo avesse opposto la non violenza al nazismo, oggi sarebbe in ginocchio sotto la sua dittatura sanguinosa.

Assolutamente no. Le dittature hanno potuto imporsi proprio perché la violenza era in quell’epoca (e ancora più lo è nell’attuale) generalizzata. Come avrebbe potuto installarsi un fascismo in ambienti non violenti? Non si può isolare un fenomeno dal suo contesto. Se si prende il nazismo già sviluppato e gli si oppone poi un ambiente non violento, l’impostazione è intenzionalmente sbagliata. Le cose stanno esattamente al contrario: in un ambiente non violento le dittature non possono svilupparsi.

Secondo questa idea la non violenza è fuori contesto giacché l’ambiente è già fortemente violento.

In principio è così; ma poiché la crisi generale si accentua, ed è già in pericolo in modo evidente la sicurezza dei popoli, vasti strati umani partecipano ai movimenti di pace quasi istintivamente, come è successo in occasione della guerra in Iraq del 2003. In quell’occasione milioni di persone in tutto il mondo hanno manifestato per la pace. Ci troviamo, in questo senso, in una tappa veramente nuova. Certamente tali espressioni non sono state organiche, ma risulta evidente che cominciano a polarizzarsi forze a favore della pace.

Supponiamo che si voglia produrre un cambiamento globale della situazione in base alla non violenza: che cosa si dovrebbe fare?

Dobbiamo rispondere come prima: non si tratta di un atteggiamento volontaristico di individui o gruppi. E’ inevitabile che la crisi generale del sistema sia accompagnata dal rafforzamento dei movimenti a favore della pace, in modo tale che questi comincino, per mezzo della pressione sociale, a determinare l’orientamento degli stati in direzione opposta a quella che hanno oggi. Rispetto alla partecipazione a tale corrente ci sono due attività di cui tenere conto: il chiarimento e la mobilitazione. Cioè chiarirsi e chiarire gli altri sul problema e, contemporaneamente, mobilitare l’ambiente in cui si vive nella direzione della pace. Poche persone sanno quanti milioni di dollari si spendono in armi ogni minuto. Pochi sono a conoscenza delta quota pro-capite di tonnellate di esplosivo che spetta a ciascuno dei 6.500 milioni di abitanti del pianeta. La maggioranza ignora quanti ospedali, scuole, università e centri di ricerca si potrebbero costruire con il bilancio destinato agli armamenti. Solo alcuni specialisti conoscono la quantità e la qualità (in ogni caso fenomenale) degli alimenti che si potrebbero produrre con simili capitali; le aree non fertili che si potrebbero bonificare e quelle deteriorate che potrebbero essere recuperate. E certamente non si è ancora svegliata completamente una coscienza ecologica che con il tempo contribuirà a sradicare il crimine contro l’essere umano e la natura. Crimine alimentato soprattutto dalla voracità dei circoli guerrafondai, indifferenti alla contaminazione radioattiva e chimica. L’impulso che si darà alle zone meno favorite il giorno in cui, effettivamente, le armi saranno fuse per farne strumenti di progresso, è qualcosa di cui il cittadino medio non si è ancora reso conto, poiché deliberatamente questo genere di informazione gli è stato celato. Infine, non si è fatto neanche uno sforzo per far sapere alle popolazioni quanto più alto sarebbe il loro reddito, quanto migliore la qualità della vita, quanto più aperto il loro orizzonte di sicurezza e di possibilità, se la corsa agli armamenti diminuisse.

Chiarire questi punti fondamentali, informando concretamente l’ambiente in cui si vive e si lavora; far prendere coscienza, con dati precisi, alle collettività politiche e religiose di cui si fa parte; lavorare affinché queste informazioni si diffondano attraverso ogni adeguato canale, è lavorare a favore della pace.

Molto bene, chiarimento e mobilitazione; come si traduce in pratica tutto questo in modo sostenuto ed efficace?

Con l’organizzazione. Un’organizzazione che chiarisca sulle grandi piaghe dell’umanità: la violenza fisica, economica, razziale e religiosa. Un’organizzazione che crei centri di comunicazione diretta (non mediata, come fanno i mezzi di diffusione). Infine, un’organizzazione che permetta ad ogni persona di comunicare con se stessa e che insegni a disinnescare la bomba di violenza che ogni essere umano porta dentro di sé.

Si richiede dunque una struttura organizzata in base a centri di comunicazione diretta tra le persone e all’interno della quale ogni partecipante possa assumere un nuovo atteggiamento di fronte alla vita ispirato alla non violenza. Questa organizzazione deve essere capace di orientare strati sempre più vasti della popolazione in un fronte comune contro la violenza. Inoltre deve essere costruita negli ambiti in cui si svolgono le attività quotidiane. Ambiente di lavoro, professionale, studentesco, ecc.; l’ambiente abitativo e di relazione: il quartiere, la popolazione, la famiglia ed il gruppo di colleghi.

Senza dubbio in ogni ambito in cui si svolgono le attività quotidiane appaiono diverse manifestazioni di pressione e di violenza. E’ in questi ambienti che meglio si può chiarire e mobilizzare contro la violenza fisica, economica, razziale e religiosa. L’ideale maggiore e di più vasta portata è il raggiungimento di una società di pace, ma ogni singolo ambiente offre concrete possibilità di azione per il chiarimento e la mobilitazione, e l’aggregazione di volontari nella stessa direzione. Molto spesso è possibile giungere a conclusioni generali partendo da situazioni particolari. Perciò, è dai luoghi di attività quotidiana, mediante la spiegazione e l’azione non violenta contro l’ingiustizia che si subisce, che (attraverso l’azione) si cominciano a comprendere i problemi generali che vive una società, ed infine tutta I’umanità. L’ideale di un mondo di pace comincia a farsi effettivo nella pratica e nell’impegno quotidiano proprio nell’ambiente in cui uno deve vivere e nel quale ognuno deve lottare per ottenere trasformazioni positive.

Secondo quanto spiegato, bisogna distinguere due livelli: quello del pacifismo in generale e quello della non violenza nell’ambito quotidiano.

I pacifismo, come atteggiamento spontaneo di fronte al fatto armato della guerra, è un buon inizio. Tuttavia, le manifestazioni in questo senso mancano di organicità se non sono accompagnate dalla lotta in favore della giustizia, per la non discriminazione e per la fratellanza internazionale di tutti i popoli. Le masse che accorrono ad esprimersi contro le guerre poi si disgregano, ed ognuno torna a casa sua riprendendo le proprie attività quotidiane come se in esse esistesse un mondo staccato dal grande problema. Questo salto che si produce tra il pacifismo generico e l’azione quotidiana è ciò che si deve risolvere in modo coerente. La non violenza è la metodologia di azione del pacifismo e pertanto il migliore strumento per la liberazione dalla sofferenza sociale. La non violenza lavora con il “vuoto”, spingendo alla denuncia, al rifiuto, alla non cooperazione con la violenza, ed infine alla disobbedienza civile di fronte all’ingiustizia istituzionalizzata. Se il pacifismo iniziale aspira ad un mondo senza guerra, la non violenza fa progredire questa idea fino a trasformarla in quella della umanizzazione della terra. Questa umanizzazione, comunque, deve incominciare nell’ambiente immediato di ognuno, in modo effettivo, sostenuto e, conseguentemente, organizzato.

Torino, 30/08/2006
Movimento Umanista, Campagna Mondo senza Guerre